Come riuscire, nei settori in cui operiamo, a non limitare l’incontro con le opere a una conoscenza storica, formale, di tecniche e strumenti? Come proporre un incontro vivo, vivificante e personale con l’universo artistico? Come favorire un contatto con l’opera che sia portatore di un intimo cambiamento per chi la osserva?  IL METODO IMMAGINALE Il metodo simbolo-immaginale è forse il più antico del mondo: l’attitudine a catturare espressioni della vita e dell’Anima con immagini, ci appartiene dagli albori. L’approccio immaginale che ci arriva oggi, quindi, viene da molto lontano ed è una via che tende a riconoscere nelle immagini il linguaggio dell’Anima. La pedagogia immaginale è un orientamento di ricerca e di pratiche educative che riconosce come suoi antecedenti significativi autori come Henry Corbin, Carl Gustav Jung, Gaston Bachelard, Gilbert Durand e James Hillman, che hanno in comune con una tradizione già presente nella filosofia antica, medievale e rinascimentale la valorizzazione dell’immaginazione creatrice come facoltà conoscitiva. Essa deve il suo atto di nascita a Paolo Mottana1, filosofo dell’educazione, e al suo gruppo di ricerca dell’Università di Milano Bicocca, che, dal 2000 circa, opera per diffondere un tale modello di conoscenza, di comprensione e di azione che trova appunto nel riferimento immaginale e simbolico i suoi principali nuclei di riferimento. La pratica immaginale si fonda sull’idea che l’universo cui ci si accosta, il “mondo immaginale” rappresentato dall’oggetto simbolico prescelto, sia un “cosmo unitario” all’interno del quale si tratta di penetrare ermeneuticamente. Tale operazione presuppone una sorta di epoché metodologica da intendersi come una sospensione del proprio “io”, per fare il più largo spazio all’ascolto-visione dell’opera cui ci si accosta. Tale sospensione del flusso dei propri vissuti proiettivi, delle impressioni, delle riconduzioni alla propria biografia e alla propria esperienza di quanto emerge dall’osservazione e dalla comprensione, è da intendersi come un vero e proprio atto di “fedeltà”, cioè di attenzione devota e prolungata alle intenzioni significanti dell’opera considerata nella sua intima espressività. Fedeltà all’immagine significa motivazione a percorrerla con rispetto , nel senso etimologico del riguardo, guardare e riguardare, instancabilmente, tornare sulle prime viste per verificarle, approfondirle, decostruirle, in uno sforzo ricorsivo che cerca il volto dell’oggetto, la sua intenzionalità significante, la sua imponderabile rivelazione.La disposizione nei confronti dell’opera ha dunque la caratteristica di una progressiva immersione in essa, il cui accesso appare regolato proprio dalla dismissione della modalità “frontale” dello sguardo “netto” di chi riconduce il dato all’interno del sistema di assi cartesiano della conoscenza. Ogni opera ha un suo margine più o meno cospicuo di segretezza e impenetrabilità, ha un suo codice, e soprattutto una sua intenzionalità, che deve essere accolta e che presuppone la massima attivazione di una disposizione ricettiva, nel senso della disponibilità a ricevere l’altro che si manifesta come una presenza. Questa impenetrabilità è spesso legata proprio al modo, alla posizione che la mente adotta di fronte all’opera. La posizione frontale, troppo orientata a sciogliere i dilemmi, a cercare rigide interpretazioni, spesso riduttive e schematiche, la posizione poco disposta all’erranza, e soprattutto che non tollera una lenta maturazione, mediata dall’abbassamento delle aspettative, dalla pazienza, dalla accettazione dell’inspiegabile, si rivela non adeguata. Occorre un quieto e paziente dissolvimento dell’io a favore dell’oggetto contemplato, una piena disposizione ad accogliere l’intenzionalità soggettiva dell’opera, affinché si possa trovare quella posizione da cui essa svela il proprio potenziale simbolico e trasmutativo. Si intende con ciò la determinazione ad abolire l’espressione (anche interna, fin dove possibile) di giudizi di valore rispetto all’opera. Si intende qui l’atto elementare di approvazione o disapprovazione perlopiù legata a moti immediati di tipo emozionale o all’adozione meccanica di schemi di valutazione precostituiti. Ogni commento di tal genere condiziona, altera irrimediabilmente e suscita una dinamica che invece di aprire alla presenza dell’oggetto, la perde, sostituendogli una rinnovata autocentratura. Il lavoro di ricerca e di immersione nel campo immaginale deve restare un lavoro di umile sottomissione all’intenzionalità dell’opera e chiede un’incondizionata apertura alla sua espressività simbolica, che ogni giudizio immediatamente compromette e riduce. L’atto di contemplazione e comprensione immaginale richiede, in un certo qual modo, una fiducia profonda nell’immagine, e una disposizione devotamente ma anche straordinariamente curiosa, instancabilmente volta alla ricerca. 1. VISIONE Nell’approssimarsi all’oggetto è necessario attraversare alcune fasi, che costituiscono i principi dinamici dell’operatività immaginale. Tali fasi in certa misura ripetono e ripercorrono la sequenza dell’operatività immaginativa dell’artefice, recuperandone quindi in un certo qual modo, secondo una modalità riflessiva in senso etimologico, l’impianto processuale. Il primo passaggio, analogamente a quello dell’artista che si pone davanti al dato grezzo, al dato reale, è la “visione”. La visione è essa stessa un paziente lavoro di spoliazione dello sguardo affinché ne sia massimamente potenziata la ricettività; è una sorta di ritorno alla cosa. La visione vede grazie al fatto che il vedente si spoglia, si dissolve come soggetto di giudizio, si apre ad uno sguardo disponibile all’ambivalenza delle immagini; è abbandono dello sguardo all’interno dell’opera: diventare solo sguardo, farsi cosa. E deve essere un esercizio sufficientemente lento, concentrato, iterato, perché in questa fase ci si scontra con la difficoltà a superare le abitudini, gli ostacoli al vedere, i punti ciechi. È necessario sprofondare, lasciarsi andare, l’atmosfera deve essere protetta, tutto deve convergere nel propiziare la concentrazione verso l’oggetto: luogo, temperatura, luminosità, rumore. Ogni elemento esterno può favorire o ostacolare questo momento così prezioso di con-discendenza nel mondo immaginale, e deve essere rigorosamente sorvegliato da chi organizza l’esercizio. 2. MEDITAZIONE Alla visione succede una fase di meditazione. La meditazione è prima di tutto un’operazione di impastamento, di triturazione, di fluidificazione e concrezione ripetuta, perseverata, alternata. E si svolge silenziosamente all’interno del soggetto. Richiede concentrazione, distensione, reclama non tanto una strutturazione cognitiva, quanto una piena integrazione organistica. L’immagine entra a contatto con le fibre del soggetto, con i suoi processi viventi, circola, scende, penetra in profondità, e occorre favorire questa discesa, scendendo con essa, lasciandosi allargare, entrando in simbiosi. La meditazione in questa fase non è ancora cognizione in senso pieno. È un principio di cognizione, è una precognizione, una elaborazione lenta dell’immagine nella cavità oscura del soggetto.In un secondo momento la meditazione comincia a secernere una configurazione, o molteplici configurazioni: un abbozzo di nominazione, designazioni, descrizioni, primi nuclei interpretativi. Alla meditazione occorre un tempo adeguato, ma non eccessivo. 3. CIRCOLAZIONE La visione “discesa”, approfondita, meditata, a un certo punto inizia a manifestare alcune timide emergenze. La scrittura prende atto di queste prime visioni. Si accede allora alla fase di “circolazione”. In essa si lasciano fluttuare i primi frammenti di interpretazione. Ma soprattutto si scambiano e si coltivano, attraverso appunto un movimento circolare, analogie, metafore, associazioni. La materia della visione, che era scesa nell’oscurità di una respirazione corporea, animale, emozionale, vibra ora di riflessi più spirituali, appaiono idee, intuizioni, figure.Lontano da ogni censura e da ogni eccesso di orientazione, ciascuno offre gli elementi della sua riflessione allo stato ancora primitivo, rudimentale, parcellare, senza spogliarli troppo della loro approssimatività. Tale operazione è anch’essa lenta, graduale, richiede paziente ascolto. 4. RESTITUZIONE Infine il flusso delle interpretazioni e delle metaforizzazioni si placa ed emerge una visione profondamente rinnovata e approfondita dell’oggetto. È una visione complessa, iridescente, generativa. L’oggetto è come avvolto in un reticolo di significati e di nuove immagini che la circolazione ha generato e chiama ad una “restituzione”. La restituzione è in realtà la nuova discesa verso la concretezza che la visione ormai quintessenziata promuove. La prima materia (visione ingenua e visione rigida) completamente dissolta, sedimentato e acquisito il potere simbolico espresso dall’immagine, sollecitata la capacità trasmutativa dell’immaginazione creatrice sulle orme di quella attinta all’oggetto, la restituzione è soprattutto atto moltiplicativo, proliferazione di significati, ritorno a un reale deletteralizzato. Il reticolo simbolico dell’opera, il suo radicamento archetipico e la congiunzione interminabile dei suoi orizzonti, liberano una capacità di sguardo trasformatrice. Le cose, attraverso il prisma dell’opera interiorizzata, risultano animate, approfondite, sprigionano senso. Cos’è la fruizione di un’opera se non la forma d’arte più evoluta? Per rispondere a questa domanda possiamo guardare al passato e in particolare ad uno studioso, Rudolf Arnheim2 (che si e dedicato per anni all’analisi di alcune tra le opere più rilevanti del ‘900). Cosa sia di preciso una creazione o un atto creativo e quanto ciò sia osservabile o documentabile e questione sempre aperta e, ai fini del nostro discorso, e anche una questione centrale.Arnheim, in: Guernica. Genesi di un dipinto3, diceva:“Non è possibile avere accesso diretto alla mente di nessuno salvo che alla propria, e come, anche della propria mente, si conoscano solo gli strati superficiali. Come si farà, allora, a scoprire ciò che accade quando un’opera d’arte viene creata? Possiamo, ovviamente, prestar ascolto a quanto l’artista riferisce di sé stesso - anche questo non basta…ma l’opera resta” . L’opera resta in qualità di traccia e si presenta a noi, osservatori contemporanei, come un punto di partenza carico di nuove possibilità espressive. All’interno di un Museo d’Arte moderna e Contemporanea, lo spettatore è a contatto diretto con l’opera e la possibilità di fruizione oggi ha sempre più spesso a che fare con un “rapporto ravvicinato” arte-spettatore. L’idea è che l’arte, (oltre ad esistere di per sé come oggetto) continui a scaturire dall’incontro dell’artista, tramite la sua opera, con il pubblico. Non una volta sola e in modo definitivo, ma ripetutamente e continuamente. Oggi l’arte genera e si rigenera attraverso il suo pubblico, cosi come il pubblico genera e si rigenera attraverso l’arte. Guardando agli ultimi lavori di Marina Abramović, un esempio su tutti a testimonianza dell’ibridazione arte-pubblico, è riscontrabile come il fattore umano possa essere messo in campo alla pari di altri “componenti” funzionali dell’opera e anzi, quasi a dire, che la percezione è parte vitale di un’opera d’arte.La percezione è costruzione, e interpretazione. Un fenomeno a cui stiamo assistendo sempre più spesso, ultimamente, è quello delle mostre senza opere originali, che propongono nuovi approcci alle opere d’arte attraverso quelle che vengono descritte come esperienze “immersive” e “totali” nella pittura di questo o quell’artista, scelto tra i più popolari e suggestivi: Caravaggio, Van Gogh o Chagall. Si tratta di spettacoli multisensoriali di video-installazioni accompagnate da concerti di suoni e odori che, insieme alle avveniristiche ricostruzioni tridimensionali usate come supporto didattico nelle mostre tradizionali, e agli stupefacenti lungometraggi cinematografici realizzati con sequenze di fotogrammi che imitano la maniera di un artista, testimoniano un cambiamento del nostro sguardo: l’occhio non sembra accontentarsi più dell’immagine apparentemente statica di una superficie pittorica, da solo non è in grado di veicolare l’introiettarsi del dato visivo al di qua del nervo ottico nella pellicola impressionabile della nostra percezione, dove avviene ogni volta una rinnovata intuizione, ma richiede qualcosa di più coinvolgente. Già da qualche anno si sta diffondendo anche in Italia un tipo di mostra che in realtà non è una vera e propria mostra. Un evento espositivo che fonde l’arte con la tecnologia, che esibisce riproduzioni di opere in formato digitale, con maxi schermi o proiezioni, a volte anche animate. Questo tipo di esposizione spesso itinerante, si avvale di tecnologia molto avanzata, che permette di riprodurre le opere ad un’altissima risoluzione accompagnando la visita con animazioni, musiche, suoni, ricostruzioni delle ambientazioni o scenografie. In alcuni casi, è possibile anche scaricare un’app per contenuti ed esperienze aggiuntive, o ancora utilizzare il visore VR per una maggiore sensazione di coinvolgimento nell’opera d’arte. Gli eventi di questo tipo sono a mio parere un’interessante novità, sicuramente diversa dall’ammirare l’originale di un’opera d’arte, ma con alcuni non trascurabili vantaggi, tra cui la possibilità di avvicinarsi e scoprire opere ed artisti che ancora non si conoscono o si apprezzano in maniera meno formale e più dinamica. Un’esperienza suggestiva, adatta a tutte le età, che affascina per la capacità di unire vecchio e nuovo, portando il visitatore a viaggiare con i propri sensi nel tempo e nello spazio.Nell’arte multimediale possiamo distinguere due ambienti tecnologici: il primo è la realtà virtuale grazie alla quale è possibile interagire con un ambiente artificiale modificabile attraverso stimolazioni. L’interazione può essere non immersiva o immersiva, ovvero quando è provocata dall’uso di strumenti che il fruitore deve indossare. Il concetto di esperienza multisensoriale entra così, prepotentemente, nell’attuale ricerca artistica. L’opera viene totalmente affidata al fruitore come processo e non più come una realtà compiuta e immutabile. Tale rivoluzione è accostabile alla teoria dell’opera aperta,4 formulata in un saggio del 1962 da Umberto Eco5. Secondo Eco l’opera appare sempre diversa in quanto non compiuta e necessita dell’apporto (emotivo, intellettivo, creativo) di colui che la osserva per essere portata a compimento. Al concetto benjaminiano che vedeva nelle nuove tecnologie un fattore di democratizzazione per l’arte, si affianca, grazie alla virtualità, quello di opera d’arte aperta.Il secondo ambiente tecnologico è quello delle reti telematiche e lo spazio di comunicazione in cui i fruitori possono interagire viene definito cyberspazio.Utilizzare la rete per creare arte, elaborando percorsi ipertestuali e multimediali, in cui vari individui possano interagire tra loro in tempo reale è un aspetto del cyberspazio.Roy Ascott, pioniere della cibernetica, della telematica e dell’interattività nell’arte, è autore di alcuni dei più importanti progetti di questo tipo per la rete. Per questo artista e per altri come lui il museo e la galleria d’arte hanno ormai lasciato il posto all’universo informatico di internet.Il passaggio da un universo naturale ad un universo tecnico è evidente. Ciò che interessa non è più l’opera compiuta, ma il processo, in una concezione più antropologica e sociologica che riporta all’attualità la poetica Fluxus6 di creatività come fatto sociale. La rivoluzione apportata dal digitale ha ovviamente favorito tutto ciò. Fa riaffiorare anche in questo ambito il sogno dell’opera d’arte totale, ovvero un’esperienza perennemente modificabile dall’artista e dal fruitore. Il rischio di questa prospettiva è paradossalmente una contrazione esponenziale di opportunità che trasforma il cyberspazio in “un universo chiuso e autoreferenziale che sbarra l’orizzonte del possibile restituendocelo sempre meno come una sfida della libertà, un’esposizione all’evento, e sempre più come qualcosa che coincide con l’innovazione tecnica della Tecnica”. Un ulteriore rischio di questa prospettiva è comunque quella di una ipervalutazione di questo medium promosso a strumento per un’immediata autolegittimazione dell’opera, un pericolo che rischia di trasformare l’esperienza artistica nel regno della mediocrità socialmente condivisa. Le sperimentazioni in campo artistico adoperanti il computer hanno inizio nei tardi anni Sessanta e si sviluppano in particolar modo nella computer grafica e nell’animazione, ma è grazie agli sviluppi della tecnologia digitale nell’ultimo decennio del Novecento che il computer si attesta come insostituibile strumento creativo. Il discorso sul trattamento digitale può portare molto lontano e per affrontare questa realtà in funzione di questa trattazione è opportuno ripartire dal concetto di fotografia e sottoporlo ad una nuova riflessione critica in quanto ancora anacronisticamente accostata all’ambito della verosimiglianza. Questo approccio appare oggi estremamente limitativo. È indubbio, infatti, che anche in una fotografia tradizionale intervengono una serie di scelte che prevedono una presenza autoriale. L’intervento dell’umano intelletto è, seppure in termini diversi ed in misura certamente minore, l’attuazione di una valutazione soggettiva. Un margine di intervento entro il quale il fotografo poteva personalizzare il risultato è sempre esistito ma, oggi, i mezzi digitali rendono la possibilità di manipolazione tanto ampia da giungere ad un prodotto che può trascendere radicalmente dall’originale, irrimediabilmente diverso da esso. Inoltre il digitale permette una riproducibilità immediata ed illimitata a qualità costante. La digitalizzazione si frappone fra i nostri occhi e il reale aspetto del mondo e la veridicità fotografica viene, a causa di tale rivoluzione, a mancare. Una fotografia ottenuta con procedimento digitale non può essere considerata come evidenza di qualcosa che le è esterno. La simulazione figurativa digitale ha privato la fotografia della sua autorevolezza raffigurativa proprio come nel secolo XIX, la fotografia aveva intaccato la pittura, ma questa volta la questione della rappresentazione è completamente trascesa. L’opinione che lega il concetto di fotografia al concetto di realtà oggettiva è rimasto immutato per anni, ed è ancora oggi strutturato nel nostro patrimonio culturale. L’avvento delle tecnologie digitali hanno minato tale fedeltà, facendo così decadere sia la veridicità dell’immagine fotografica, in quanto risultato di una serie di operazioni artificialmente influenti sull’esito finale, sia hanno nuovamente minato la paternità autoriale dell’opera, soprattutto in quanto quest’ultima non è necessariamente attribuibile ad un’unica persona. Le nostre capacità percettive si sono, di conseguenza, rapidamente modificate per adeguarsi ad un nuovo concetto di realtà a fruizione eminentemente visiva: ma è d’obbligo dubitare di ciò che si vede ed è fondamentale essere consapevoli che la realtà può essere manipolata. Perciò é indispensabile dotarsi di un nuovo atteggiamento mentale nel rapporto con i mezzi digitali: le immagini che ci vengono quotidianamente sottoposte non sono necessariamente coerenti con la realtà, non sono scontatamente vere, al contrario sono spesso radicalmente ed intenzionalmente alterate. Le tecnologie digitali, infatti, assecondano la manipolazione delle immagini di un mondo che, per ragioni varie e complesse, tende verso una progressiva perdita dei contatti con la realtà fisica. Parlando, infatti, di rivoluzione digitale è riduttivo limitarsi a considerare unicamente il campo tecnologico: tale rivoluzione sta configurando un nuovo modello sociale in cui il virtuale si sostituisce alla realtà. Un processo già denunciato da Jean Baudrillard: Il virtuale ha ucciso la realtà. Senza lasciare tracce7.I nuovi formati digitali si caratterizzano per l’estrema leggerezza, col chiaro obbiettivo di voler ridurre l’enorme quantità di dati relativi a questo tipo di informazioni a un valore agilmente gestibile dai mezzi informatici. In quanto alla circolazione digitale il World Wide Web si attesta come il mezzo più capillare. Lungo miliardi di fili corrono le informazioni sotto forma di parole, suoni, immagini e ora video grazie alla banda larga, alle fibre ottiche e le nuove tecnologie di trasmissione. Mentre sul piano estetico è evidente come il Web abbia imposto il documento multimedia/interattivo come nuovo standard di comunicazione e come abbia ridimensionato le prospettive spazio-temporali evitando che l’opera d’arte venga incentrata su coordinate preferenziali.Diffusi fenomeni come le gallerie d’arte digitale, per esempio, liberano gli artisti dal condizionamento dei tradizionali canali di diffusione, un fenomeno che può essere visto idealisticamente come incompatibile con l’odierna mercificazione dell’arte e, a dirla come Benjamin8, definito anche per questo il padre di internet, anche il web ha agevolato, democraticamente, il rapporto delle masse con l’opera d’arte. Altre esperienze, comunque alquanto autoreferenziali, come itelematic networkings (operazioni in rete computerizzata), eliminando la tradizionale dicotomia fra artista e spettatore, offrono mezzi ed opportunità per partecipare ad un evento creativo che implica per sua natura non solo uno scambio di comunicazioni e idee, ma il diretto coinvolgimento di più persone, da luoghi e ruoli diversi, i quali concorrono alla creazione del significato, che conseguentemente diventa un evento che accade, dissolvendo in questa empirica circostanzialità ogni residua pretesa autoriale. La dissoluzione di ogni oggettività del significato diventa, nella teoria delle “arti tecnologiche”, anche un’istanza di carattere estetico. Essa conduce, come visto, in primo luogo alla dispersione della paternità autoriale, in quanto l’autore del flusso informativo-immaginale è frantumato e disperso su tutta la rete, ma ciò non implica necessariamente che esso debba trasformarsi in un’entità collettiva anonimizzante. Per i suoi sostenitori il telematic networking mira ad amplificare le istanze individuali del pensiero e dell’immaginazione, esaltando quella soggettività della percezione dal cui grado di interazione nel sistema comunicativo dipende in larga parte il processo di formazione del significato. In secondo luogo, quella stessa dissoluzione converte l’opera in un mutevole ed immateriale “scambio creativo”, ribadendo così un principio chiave di tutta la contemporaneità: l’opera è incompiuta senza l’apporto del fruitore. Esperienze di questo genere si pongono come espressioni di una certa cultura postmoderna che fa della mutevolezza e dell’immaterialità dei significati, come pure dell’inesauribile possibilità di mediare fra dati diversi, il paradigma del mutamento culturale presente, in specie della transizione verso uno stadio di ubiquità transdisciplinare che porterebbe a ridimensionare le pretese assolutistiche delle singole discipline conoscitive. Le opere virtuali esistono in potenza ed hanno la teorica possibilità di concretizzarsi in una rappresentazione per immagini basata sulla simulazione del reale mediato da mezzi elettronici. Prodotto di una sofisticata tecnologia che sta gradatamente infiltrandosi non solo nella vita pratica ma anche nelle modalità percettive, la creazione artistica digitale, frutto dell’ibridazione uomo-macchina, deve essere fruita mettendo in atto percorsi cognitivi che, seppur nuovi nell’analisi estetica, sono tuttavia quelli che governano il nuovo sistema derealizzato di pensiero che l’uomo utilizza. I nuovi percorsi cognitivi, infatti, mettono in grado il fruitore di recepire correttamente la progressiva integrazione della tecnologia nell’opera d’arte: mezzo per favorire l’instaurarsi di nuovi processi comunicativi e culturali. La storia dell’arte del secolo passato è, come visto, notevolmente influenzata dall’avvento delle tecnologie. La premessa di quanto oggi sta accadendo ha le sue radici concettuali in un’idea di arte che sfugge da ogni oggettualità, che richiede una partecipazione dell’osservatore per essere compresa, che identifica il processo artistico nella decontestualizzazione dell’oggetto convertito in opera d’arte. Concetti presenti proprio a partire dalle avanguardie storiche del primo Novecento. Paradigmatica è la poetica dadaista della casualità che vincola l’osservatore ad una rilettura dell’oggetto sacralizzato dall’intervento dell’artista. Quest’ultimo sottrae l’oggetto alla banalità del quotidiano trasformandolo in opera d’arte. Il concetto si può accostare anche alla Pop Art, agli Happening, alla Body Art che finiscono per assottigliare il contenuto dell’opera d’arte fino ad eliminarlo del tutto.È palese come nell’arte concettuale ci fossero già indicative anticipazioni del digitale inteso come flusso comunicativo e linguaggio non oggettuale che ha bisogno di essere fruito per esistere. Il rapporto fra realtà e apparenza non riguarda soltanto la cosiddetta realtà virtuale e gli aspetti tecnici della digitalizzazione in quanto ci si trova ad affrontare aspetti innanzitutto sociologici. L’informatizzazione di massa dei processi relazionali e le applicazioni telematiche, onnipresenti in ogni settore, portano a considerare le dimensioni di questo fenomeno e l’inarrestabile sovrapposizione di un sistema virtuale ad un sistema reale. Il concetto di simulacro, oggi strettamente connesso alle tecnologie di produzione e simulazione d’immagine, implica il rifiuto di un prototipo esterno e la tentazione di considerare l’immagine come un prototipo, e trova la sua massima realizzazione nell’esperienza virtuale. La realtà virtuale non ha bisogno di simboli per evocare significati o richiamare memorie storiche, ma di simulacri. Chiarisce bene l’antitesi Perniola9 spiegando come il termine tedesco Sinnbild , che vuol dire appunto simbolo, rimandi ad una ricchezza, ad una inesauribilità del significato (Sinn) a cui l’immagine (Bild) rinvia. Tutta l’immagine contemporanea non è più un Sinnbild , ma un Trugbild , l’immagine che rinvia ad una simulazione, ad una mancanza di realtà, di senso, di fede, in una parola un simulacro. Il percorso che porta alla dematerializzazione e alla virtualità è relazionabile all’evoluzione stessa del pensiero filosofico in quanto, la virtualità, si può intendere in continuità con tutti quei processi di astrazione che caratterizzano molto del pensiero teoretico. Il tentativo di svincolarsi dall’oggettualità e dall’empiricità significa anelare l’idea che nella virtualità diviene ombra. Il valore conoscitivo dell’ombra è dubbio in quanto il suo valore è limitato all’apparenza. Ritorna qui il concetto di mimesis10 che affonda le proprie radici nella filosofia di Platone e Aristotele. Per Platone, la mimesi è produzione di immagini, che possono avere origine divina (è il caso dei sogni) o umana. Nella Repubblica11 considera la mimesi negativamente, riferendosi alla tragedia, alla commedia e all’epica, in quanto producono pallide imitazioni di eventi e realtà del mondo sensibile, che a loro volta non sono che copie imperfette del mondo delle idee. Imitazione d’imitazione quindi. Aristotele definisce ogni forma di poesia come mimesi. Riferendosi alla mimesi drammatica della tragedia osserva il suo potere di operare similmente alla natura. La rappresentazione del conflitto quotidiano degli uomini con gli dei e con il destino produce sullo spettatore un effetto di purificazione delle passioni che normalmente condizionano la sua percezione del reale. Lo conduce a considerarle con distacco. Il piacere estetico si identifica proprio in questa liberazione dell’animo dalle passioni e dalle paure, che permette poi di osservare con sguardo critico le contraddizioni del reale. Queste considerazioni possono aiutare a considerare la virtualità come un insostituibile contributo che permette di comprendere e meglio definire non tanto la realtà, ma le immagini della realtà: il valore obiettivo delle rappresentazioni. La virtualità, non intesa come platonico inganno ma come aristotelica catarsi, può rimettere in discussione e definire l’efficacia di ogni sistema di astrazione.L’artista, sottraendosi al rischio di un’autocelebrazione delle proprie competenze tecnologiche può, legittimamente, figurare la sua mimesi nella virtualità. L’artista demiurgo ha la capacità, infatti, di far uso di ogni tecnica e tecnologia in totale libertà creativa in quanto possiede un’attitudine conoscitiva capace di rendere le nuove possibilità di cui dispone oggetto stesso di comunicazione. L’opera, ormai concepita come flusso comunicazionale, non ha o non ha più un’esistenza oggettuale: non può essere presentata nei luoghi tradizionalmente destinati all’esposizione e non può essere commercializzata se non nella sua riproduzione tecnica. L’opera non può essere conservata se non come traccia tecnologicamente costruita e non può essere esclusivamente posseduta perché immateriale o, meglio, inesistente. Dell’opera intesa come evento resterà solo un residuo “virtuale” da attivare all’occorrenza. Si potrebbe quindi definire virtualità anche il nuovo rapporto dematerializzato dell’uomo con la realtà.L’interattività è una delle principali tematiche della produzione artistica contemporanea mirante al coinvolgimento dello spettatore nella genesi dell’opera. Le tecnologie interattive sono sostanzialmente basate su sistemi multimediali facenti uso di connessioni di rete che rendono disponibili fonti d’informazioni accessibili in tempo reale e/o di ambienti tridimensionali detti realtà virtuale che costruiscono una realtà artificiale sempre predisposta ad una nuova immersione da parte dell’utente. L’interattività si caratterizza innanzitutto per avere una base visiva che permette all’utente di interagire consentendogli di strutturare molteplici percorsi che senza il suo intervento rimarrebbero potenziali. Le tecnologie interattive si qualificano, quindi, come flussi comunicativi che hanno bisogno di un fruitore attivo. Ciò li diversifica totalmente da media come cinema e televisione, anch’essi a base visiva, ma il cui utente è fondamentalmente un fruitore passivo di qualcosa che altri hanno ideato. Ma l’idea di arte interattiva può apparire ambigua soprattutto in relazione all’uso del termine “interattiva”. Questo termine, usato anche in relazione alla computer art, è una tautologia in quanto qualsiasi attuale interfaccia uomo-computer è interattiva per definizione: qualsiasi moderna interfaccia permette all’utente di controllare e manipolare in tempo reale l’informazione mostrata sullo schermo. Una volta acquisita da un computer l’immagine diventa automaticamente interattiva e chiamare arte interattiva l’opera elaborata mediante computer è la semplice affermazione di una delle caratteristiche basilari del computer. Nell’opera interattiva ritorna nuovamente, portata all’estremo, l’idea dadaista e duchampiana che vede infranta la rigida bipolarità fra artista e spettatore a favore di una continua dialettica che definisce, grazie alla partecipazione attiva di entrambi, l’opera d’arte. Quest’ultima esiste in quanto viene percepita, l’opera non risiede quindi nell’oggetto, ma nel processo dinamico che si instaura fra chi la crea e chi la fruisce. Non vi è più un’entità fisica con proprietà aspettuali, ma un contesto dinamico che si apre a partire dalla fruizione dell’opera d’arte. Questo è, tutt’oggi, ciò che avviene nell’arte elettronica: l’artista innesca processi affini a quelli teorizzati da Duchamp cimentandosi con quei linguaggi che costituiscono lo stadio più avanzato del processo tecnologico. Di particolare interesse in questo senso sono le sperimentazioni di Studio Azzurro12 che mirano a mettere in relazione immagine elettronica, ambiente e partecipazione dello spettatore. Quest’ultimo è invitato a scoprire, attivando un processo che unisce al coinvolgimento un’assunzione di responsabilità di tipo nuovo nei confronti dell’opera, le regole del gioco interattivo. Oggetti e figure immateriali si animano in virtù del controllo di dispositivi che agiscono conseguentemente ai movimenti di chi si accinge all’opera. L’interattività permette al fruitore di elevare il proprio stato, di attingere a possibilità percettive capaci di accrescere le proprie capacità sensoriali. L’ambiente elettronico, sempre disponibile all’“immersione” , ha la proprietà di far riscoprire percettivamente immagini e suoni: lo spazio dell’opera si modella plasticamente, diventa acustico, tattile, l’osservatore vi si immerge, entra in uno stato alterato, sensorialmente amplificato. Ma l’opera interattiva si caratterizza soprattutto per il ricco e continuo scambio di linguaggi avvolte volutamente stridente, generando pratiche ibride, multimediali, dette Responsive Environment . Nell’attuale dibattito sopra i nuovi media interattivi, riguardante i sistemi informatici e il loro utilizzo e le possibilità e le implicazioni dell’interattività, troviamo argomenti antitetici. Alle tendenze utopiche si contrappongono tendenze disfattiste con motivazioni che si mostrano ovviamente contrarie e irrimediabilmente inconciliabili. Da una parte si promette la possibilità di un utilizzo emancipatorio dei nuovi mezzi: paradigmatico è ciò che prefigurò, all’inizio degli anni Trenta per la radio diffusione Bertolt Brecht, per il quale la radio avrebbe dovuto trasformarsi da un apparato di distribuzione ad un apparato di comunicazione, il ricevente avrebbe dovuto trasformasi in mittente. D’altra parte la tecnologia tende verso un’automatizzazione alienante che minaccia molte sfere del lavoro umano e verso un’invasività sempre più capillare, sintomatica di una tecnologia sempre più soggiogante. Secondo quest’ultima impostazione, heideggerianamente, l’essenza della tecnica sfugge al dominio dell’uomo e si contrappone a lui come un Gestell , un’imposizione.Il mutamento culturale del secolo scorso ha caratterizzato fortemente la percezione del mondo della tecnica da parte degli artisti influendo certamente sulle loro opere e sul loro pensiero. L’uso di un programma di video montaggio o qualsiasi altro mezzo tecnologico non muta il lavoro dell’artista che resta comunque estetico, divenendo tale in virtù di una relazione estetica. Nella continua diatriba riguardante le possibilità tecnologiche, le attitudini più disfattiste vedono nelle realizzazioni artistiche mediante tecnologia un basso indice di utilizzabilità soggettiva, ovvero un condizionamento che mina la libertà poietica dell’artista. Ma il ruolo dell’artista non è venuto meno e le nuove tecnologie hanno probabilmente solo accentuato la componente non oggettuale dell’opera d’arte. Anche il concetto di “stile”, inteso come momento fondamentale di ogni singola personalità artistica non è venuto meno, ma si fa estremamente più complicato estrinsecarlo in quanto il contenuto dell’opera dipende ora, oltre che da fondamenti filosofici, da fondamenti semiotici. Storicamente la forma video coincide con due fenomeni correlati: la smaterializzazione dei processi artistici e la nuova attenzione alle problematiche sociali. La qualificazione in termini estetici di questo fenomeno va comunque ricondotta alla maturazione in senso “ambientale” dell’opera d’arte, accostabile all’idea duchampiana d’arte come processo dinamico, ciò implica una radicale modificazione del concetto artistico di ambiente che, in quanto ricondotto alla struttura complessiva della società, diventa anche “spazio sociale” della prassi artistica. Di conseguenza l’esperienza artistica diviene fisica, ma non oggettuale. Sono numerosi i creativi che si sono cimentati col video creando, nella fisicità delle loro installazioni, il proprio spazio artistico. L’estrema quantità di queste sperimentazioni e la programmatica ricerca dello shock visivo porta però spesso a rappresentazioni di dubbio gusto che di artistico mantengono solo l’intento. Pochi, invece, sono gli artisti che si sono cimentati con le potenzialità percettive proprie del medium elettronico e, tra questi, nessun artista come Bill Viola13 ha colto così profondamente le straordinarie possibilità creative del mezzo elettronico come dispositivo per farci vedere con occhio interiore oltre l’apparenza del visibile. Bill Viola è l’artista che più di ogni altro induce nello spettatore, emotivamente coinvolto, una riflessione sulla precarietà e labilità della realtà “oggettiva” di cui sa essere parte, facendo leva sull’immediatezza della percezione prima che l’intelletto proceda a una rassicurante elaborazione logica. Prima che il fruitore si distenda davanti all’immagine simulacro a cui è abituato. L’avvento di un nuovo statuto dell’immaginario sempre più virtualizzato porta ad una disputa sull’immagine prodotta dai nuovi media e sull’operare artistico che di questi nuovi media si serve. La critica d’arte contemporanea tenta di far fronte all’innovazione tecnologica assimilandone talvolta la logica eminentemente mediatica oppure contrapponendo categorie che possiamo ricondurre al pensiero di Martin Heidegger14 che vedono l’uomo perennemente incapace di comprendere l’essenza della tecnica, un’impostazione che lascia più che mai l’arte radicata nella lontananza dell’Essere. La téchne15, concernente ogni dimensione produttiva del fare, appartiene all’ambito della poiesis16 e ciò può essere pacificamente compreso per quell’arte superiore che era l’arte dell’Umanesimo, ma questa convergenza di senso fra fare tecnico e fare poietico, per il filosofo tedesco, non può valere per la tecnica moderna. Per Heidegger, infatti, il destino della tecnica è piuttosto quello di oscurare e mascherare nel suo carattere di imposizione il senso della poiesis. Il dubbio sulla possibilità di fare arte è ormai radicato nell’esperienza contemporanea. Una delle ultime grandi opere d’estetica, la Teoria estetica di Adorno conferma così come l’arte abbia perduto ogni sua ovvietà: “È ormai ovvio che niente di ciò che concerne l’arte è ovvio né nell’arte stessa né nel suo rapporto col tutto; ovvio non è più nemmeno il suo diritto all’esistenza”. Le speranze utopiche che si prefiggono la totale assunzione dell’orizzonte tecnologico come immensa possibilità poietica si confrontano con tale giustificata perplessità. Comprendere le nuove tecnologie e attingere alle nuove possibilità percettive ma soprattutto comunicative offerte, vuol dire anelare al superamento di tale disagio. Richiamare ancora Benjamin permetterà di andare oltre tale perplessità in quanto egli non riconosce hegelianamente la morte dell’arte, ma la rinuncia dell’arte ad essere deposito tradizionalmente oggettivo di verità. Le tesi benjaminiane si sono dimostrate di una straordinaria pertinenza e lungimiranza durante l’intera trattazione nel descrivere, con molti anni di anticipo, il fenomeno dell’esteticità diffusa che oggi è sotto gli occhi di tutti. La sua indagine estetica è dunque, in primo luogo, una ricognizione sullo statuto dell’immagine e sul concetto di opera che comincia a cedere il passo a fenomeni nuovi e irriducibili alle categorie dell’estetica tradizionale. Per Benjamin la riproducibilità, coinvolgendo nell’intimo il fare artistico, rivela una caratteristica essenziale della tecnica moderna, quella di saldare in un unico processo innovazione, comunicazione, riproduzione. Si potrebbe dire quindi che la chance tecnologica sta nel caratterizzare in senso eminentemente riproduttivo la sua produzione. Fotografia, cinema, televisione, computer e reti telematiche sono tappe di una trasformazione radicale, hanno contribuito a costruire un nuovo statuto d’immagine contemporanea che si attesta come simulacro a causa del carattere scettico e nichilistico della società di massa. Il rapporto tra le arti visive e questi nuovi universi d’immagine è ovviamente molto complesso in quanto ogni medium possiede specifici modelli linguistici di comunicazione. Dalla scoperta della fotografia il mondo delle immagini visuali non è più quello di prima: “Nella fotografia il valore di esponibilità comincia a sostituire su tutta la linea il valore cultuale”, allontanandosi dal valore sacrale e rituale che apparteneva al simbolo. Qui sta la differenza tra simbolo e simulacro: il primo attinge il proprio potere dalla religione, dal mito; il secondo dallo scetticismo e dalla derealizzazione sociale. L’immagine contemporanea si allontana dal simbolo con la conseguenza che, in tutti gli aspetti dell’attività sociale, il simulacro sembra avere la meglio sulla realtà al punto da dissolverla. “Ma le difficoltà che la fotografia aveva procurato all’estetica tradizionale, erano un gioco per bambini in confronto con quelle che il cinema avrebbe suscitato17. Nel cinema ufficiale lo stesso valore sacrale dell’uomo è sacrificato in quanto “l’uomo [l’interprete]viene a trovarsi nella situazione di dover agire sì con la sua intera persona vivente, ma rinunciando all’aura. […] L’aura che circonda l’interprete deve così venir meno, e con ciò deve venir meno anche quella che circonda il personaggio interpretato ”18. L’industria cinematografica ovvia a tale perdita: “Il cinema risponde al declino dell’aura costruendo artificiosamente la personalità fuori dagli studi: il culto del divo, promosso dal capitale cinematografico, cerca di conservare quella magia della personalità che da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo carattere di merce ”19. In antitesi con tali istanze mercificanti lavora la cinematografia d’avanguardia che, come visto, entra presto in contatto con artisti visivi fra i quali Richter, Man Ray, Duchamp e Léger che si interessano al carattere visivo del cinema, più che alla sua struttura teatrale e diegesica. L’antitesi fra mercificazione mediatica e artisti visuali è mantenuta anche nel medium televisivo. Sia la televisione come medium di massa, sia il video come medium artistico usavano il medesimo supporto materiale, ovvero segnale elettronico che può essere trasmesso in tempo reale o registrato su un nastro, e comprendevano le medesime condizioni di percezione, ovvero un monitor televisivo. Le uniche giustificazioni per un trattamento come media distinti erano sociologiche ed economiche e l’interesse degli artisti visivi deviò sul videotape.L’avvento del computer in ambito artistico ha ritagliato scenari impensabili nella recente storia dell’arte. Tutto ciò che oggi chiamiamo arte elettronica passa da questo strumento e neologismi come video arte, computer arte e arte multimediale appartengono a questa macroarea. Tutta la tecnoarte trova la propria identità nella sperimentazione e nel continuo scambio di linguaggi. L’artista o il semplice creativo dà ordini ad un mezzo che è simultaneamente espressione orale e segno, immagine acustica e visuale, il tutto in uno spazio virtuale in cui interagire in itinere con tali espressioni è sempre possibile. L’arte elettronica è, dunque, un’arte differente, non solo perché strettamente connessa alle tecniche di riproduzione e produzione, ma per la capacità di essere innanzitutto una forma di comunicazione ed espressione che ha sconvolto radicalmente il concetto di creatività. Uomini e macchine si sono sempre più reciprocamente inglobati durante questi decenni di tecnocultura20 fino al connubio espresso dalla virtualità. Ultimo, solo in ordine di tempo, è il World Wide Web capace di stabilire sistemi di distribuzione e circolazione delle immagini inediti. Le frontiere della comunicazione si sono allargate con impressionante rapidità e si è venuto a creare un mondo parallelo a quello reale in cui si sono inserite anche le strategie artistiche. Grazie al risvolto democratico del web si possono oggi proporre al pubblico un’alternativa alle vecchie istanze critiche. Le opere si offrono all’interazione dei virtuali fruitori e si predispongono potenzialmente alla loro rielaborazione. L’opera virtuale/interattiva, in corrispondenza con la logica della rete, è sempre potenzialmente pronta ad una nuova immersione. Parallela a Internet un’altra evoluzione, la rivoluzione digitale degli anni Novanta, ha sancito il passaggio della maggior parte dei mezzi di produzione, immagazzinamento e distribuzione alle tecnologie digitali. L’adozione di questi nuovi strumenti da parte degli artisti sconvolse le tradizionali distinzioni basate sul medium e le sue condizioni di percezione. La tecnologia digitale, infatti, ha reso facilmente possibile la realizzazione di versioni differenti, dello stesso progetto, per media diversi, differenti reti di distribuzione e differenti fruitori, spezzando così la secolare relazione fra l’identità di un’opera d’arte con il suo medium. Marshall McLuhan nell’operaGli strumenti del comunicare21 compie una svolta di enorme rilievo nella quale i problemi della forma estetica sono ripensati in rapporto con i media. Egli è l’interprete entusiasta del mondo compiutamente tecnicizzato dei nostri giorni. Per McLuhan il potere formativo del medium è in se stesso, da qui la celebre conclusione secondo cui “il medium è il messaggio”. Egli ritiene che il requisito essenziale della tecnica moderna sia la sua tendenza ad attestarsi sul piano della comunicazione, espandendo e specializzando l’efficacia dei media. Marshall McLuhan fu il primo ad individuare la stretta connessione tra media, psiche umana e sistemi sensoriali. Le sue rivoluzionarie teorie sulla comunicazione si fondano sulla convinzione che il criterio attraverso il quale la comunicazione viene organizzata abbia sull’individuo un impatto di portata ben maggiore rispetto di quello prodotto dal contenuto stesso del messaggio veicolato. McLuhan indica i media tecnologici non più come strumenti neutri atti solo a veicolare un messaggio ma, per la loro natura specifica, sono essi stessi ad esprimere le mutazioni del nostro modo di pensare ed agire, indipendentemente dall’uso che di loro viene fatto, finendo così per imporsi come vero ed unico contenuto del messaggio. McLuhan segna così il passaggio dalla filosofia dell’arte alla filosofia dei media. Pochi sono tuttavia i pensatori che condividano l’entusiasmo di McLuhan verso i nuovi media. La coincidenza tra il medium e l’opera, il tramite che diventa messaggio nella ridefinizione del concetto di arte contemporanea, è uno dei fondamenti dell’arte contemporanea e risiede nel suo rapporto con la tecnologia, nel fatto che la tecnologia sta diventando il medium costitutivo. La digitalizzazione, la virtualità e l’interattività, inserendosi in quell’istanza innovativa e comunicativa prefigurata da Benjamin si immettono in quel percorso che progressivamente dematerializza e concettualizza l’opera d’arte, introducono conseguenze che hanno portato a compimento la smaterializzazione del prodotto artistico: consacrando il passaggio dall’oggetto al concetto fino a rendere l’opera effimera. Il processo ha portato verso l’assottigliamento, verso la scomparsa dell’oggettualità dell’arte, ma non di ogni forma artistica. In questo processo di dissoluzione ha giocato un ruolo fondamentale l’industria culturale e la comunicazione mediatica basata sulla simulazione che usando e abusando di sofisticate tecnologie, capaci di produrre degli effetti sempre più sensorialmente coinvolgenti, riducono la cultura a merce e la socialità a consumo, corrodendo le basi di ogni acculturazione sociale. La concettualizzazione dell’oggetto artistico non va però intesa unicamente come una contrazione ma, paradossalmente, come una dilatazione. Attraverso il digitale e alle reti telematiche, infatti, si giunge a forme e processi creativi che non hanno bisogno di un luogo fisico. L’opera pubblicata in rete scardina la cornice imposta dalla galleria, non tende all’esclusività, ma ad un’arte senza confini e proprietari, in concordia con quanto presentito da Benjamin si è concretizzato il rapporto delle masse con l’opera d’arte. La tecnologia, intesa in questo senso, diviene un’utopia.Quelle analizzate in questa trattazione possono essere considerate come grandi tappe di una rivoluzione culturale, ma nello specifico si può parlare di rivoluzione comunicativa . Il termine fu usato per la prima volta riferendosi al video ma oggi il richiamo è indiscutibilmente il computer, il web e il mondo del digitale che il video ingloba. In definitiva si può però osservare come il mito di una rivoluzione comunicativa non riguarda unicamente la tecnologia, ma riguarda soprattutto le capacità del singolo individuo di comunicare con notevoli risvolti sociologici e antropologici destinati a produrre mutamenti sulla percezione dell’immagine, del suono, dello spazio, della comunicazione. Il tutto rimanda alla poetica Fluxus e ai suoi due principali obiettivi: stabilire un nuovo ambiente sociale in cui si possa realizzare una nuova comunicazione estetica in grado di ridurre la distanza sacrale tra artista e pubblico, sollecitandone il reciproco impegno dentro un unico campo di creative relazioni linguistiche; e opporre ai canoni e alle convenzioni dell’arte istituzionale nuovi aperti modelli in grado di stabilire permutazioni fra linguaggi diversi. Interpretare la mutazione di questo inedito universo è questione che impegna sia il critico che l’artista. Quest’ultimo per cultura e statuto sociale, è chiamato ad imbastire con lo spettatore una partita aperta che ha come obiettivo la determinazione di una realtà ormai minata. Un’analisi in questo senso va compiuta in termini filosofici emancipati da ogni tentazione di conservatorismo culturale.-